Garufi, Rocambole, Gente di Catania: il teatro di Vitaliano Brancati – Parte 1

Garufi, Rocambole, Gente di Catania: il teatro di Vitaliano Brancati – Parte 1
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Le opere teatrali

di Rocambole Garufi

Gli inizi

Parlare delle opere teatrali di Brancati è un’impresa abbastanza difficile, anche se i suoi modi stilistici, tolto il gruppo dei drammi “fascisti”, non sono molto varii (il che dà, a chi leggesse di seguito tutte le sue commedie, un sottile senso di monotonia). Tranne La governante, tutti i lavori, a mio giudizio, soffrono di una ancora non matura vena che li fa apparire piuttosto una “prima stesura” che opere completamente definite.

Evidentemente Brancati, pur sentendosi irresistibilmente portato al teatro, doveva aspettare ancora un poco per darci qualcosa che non avesse più l’aria del provvisorio.

Ben a ragione Moravia, rievocando la fine dello scrittore, parlerà di una morte “doppiamente immatura”.

Le prime tre opere che il giovanissimo Brancati scrisse appaiono fortemente condizionate dalla mistica fascista della vittoria dell’uomo d’azione sul pensatore.

In esse era predominante l’influenza di D’Annunzio, oltre che nei contenuti, nello stesso impasto tecnico. Ognuno dei drammi era diviso in tre atti e i dialoghi erano magniloquenti ed “eroici”.

I titoli erano pieni di suggestioni dannunziani: Fëdor, Everest e Piave.

A dettare la loro stesura fu un traboccante patriottismo che rifletteva bene l’immagine che il regime voleva dare di sé stesso.

Mussolini, il “Duce”, vedeva senz’altro di buon occhio ogni opera che sapesse di romanità o di classicismo in generale, dato che lui stesso finiva per essere una figura classica nell’immagine che di sé dava (seguendo i dettami della scrittrice ebrea Margherita Sarfatti, che fu la sua amante e probabilmente l’unica donna che egli abbia veramente amato).

L’accettazione, da parte di Brancati, di questo modello fu senz’altro ingenua e “l’azione” che lui voleva incarnare sulla scena si tradusse in figure di giganti e in colpi di scena che pretendevano di essere sensazionali.

Indicativa, a questo proposito, era la scena finale di Everest, quando in cima al monte Everest veniva scoperto il busto dell’uomo che più aveva contribuito a forgiare il futuro; busto che, manco a dirlo, era quello di Benito Mussolini.

Nel dramma Piave, brancati mettere in scena la figura di un disertore (fra l’altro contrapposta a quella di un caporale coraggioso di nome Benito Mussolini) che, scampato alla tragedia di Caporetto, di fronte ai pericoli che correva la patria, si redimeva e tornava a combattere.

Questo dissidio, da cui avrebbero dovuto scaturire l’azione scenica (la paura opposta all’amor patrio), fece di questo dramma, nel particolare genere scelto dall’autore, forse il miglior lavoro dei tre, poiché più rispondeva ai canoni classici della tragedia, che faceva appunto nascere la drammaticità da una lotta tra forze opposte.

In essa v’è, inoltre, da notare un più marcato processo di umanizzazione dei personaggi. Processo che portava il protagonista del dramma, Giovanni Dini, a squarci di riflessiva intimità, come quando meditava sui mali della guerra.

Naturalmente, nel complesso, le rotondità oratorie, alla D’Annunzio, furono la nota caratterizzante del dramma. La stessa opposizione che doveva dar vita all’azione vi appariva fittizia e forzata, assolutamente non in armonia con la realtà in cui era nata.

D’altra parte, in piena civiltà piccolo-borghese (qual’era quella del fascismo), un teatro che potesse toccare gli accenti eroici di quello greco appariva abbastanza fuori dal tempo. Brancati stesso, più tardi, lo ebbe a dire, parlando di un probabile “nuovo teatro”, come già s’è visto nel paragrafo precedente.

Infine, la via del dramma non era quella giusta per il Nostro, molto più dotato di acuto senso della realtà che di sublimazioni ideali.

Quando, infatti, scoprirà la sua vera vocazione, non si staccherà più dai problemi di questa terra, anzi la concretezza delle cose da dire assurgerà il lui al ruolo di una vera e propria poetica.

Questo matrimonio si deve fare

La prima commedia nello stile che praticamente gli restò definitivo furono i tre atti di Questo matrimonio si deve fare.

La vicenda si svolge in un piccolo centro di provincia, in Sicilia, e narra di un matrimonio continuamente rimandato dalla signorina Pierina Monelli, poiché il pretendente, Paolo Pannocchietti, non le piace.

A complicare la vicenda, vi è anche il segreto amore di cui Pierina è oggetto da parte del prof. Volfango Raimondi, peraltro ossessionato, anche, da una continua perdita di voce.

La Monelli, per rimandare il matrimonio con lo sgradito pretendente, chiede che il Pannocchietti si meriti tutti i possibili incarichi che possano dargli maggiore prestigio sociale (naturalmente il numero dell’incarichi non sarà mai sufficiente all’insoddisfacibilità di Pierina).

Al polo opposto, l’altro pretendente, Volfango, non riesce a trovare (e non lo troverà mai) il coraggio di svelare a Pierina l’amore che lo possiede.

Alla fine, dopo più di dieci anni, Paolo, ormai conquistati tutti gli incarichi possibili e immaginabili (per l’esattezza, egli sarà “tutto”), impazzirà, e Volfango, quando finalmente Pierina saprà del suo amore, avrà perso del tutto la sua voce.

La donna, mettendosi in mezzo ai due, commenterà: “che bel quadro!”.

Enzo Lauretta, a proposito di questa commedia, scrive:

“Questo matrimonio si deve fare si muove su un ritmo festoso e bizzarro in cui sono mescolati allegramente fantasia, gioco fatuo e umanità sullo sfondo di un piccolo centro di provincia gretto, superstizioso, ricco solamente di pregiudizi e di noia”1.

La noia infatti è la sola vera protagonista di questo lavoro. Noia cupa e pesante a cui i personaggi non riescono a sottrarsi, e che li fa reagire con un agitarsi che tuttavia, fatalmente, gira a vuoto.

Colpiscono, infatti, gli aspetti di follia dei personaggi; essi sono agitati da una velleità di movimento puntualmente precipita nella vecchiaia, nella morte, nella stupidità (tema che ritornerà con molta più forza in Paolo il caldo).

In questo inutile muoversi e rimuoversi affiora uno dei temi che resteranno costanti nella parabola artistica del Nostro.

Data la scelta fatta da Brancati di “ritrarre” tutto un ambiente, i singoli personaggi hanno ben scarso rilievo, e anzi finiscono per assomigliarsi un po’ fra loro. Mancano delle individualità o dei caratteri e piuttosto si hanno dei “motivi”.

I dialoghi usati dall’autore sono quasi festanti e briosi, e annunciano quel gusto, tipicamente brancatiano, della deformazione ironica e grottesca. Deformazione che, in ultima analisi, non fa altro che evidenziare maggiormente la profonda amarezza da cui parte tutta l’arte del siciliano. Giustamente il Lauretta nota:

“Un lavoro senza pretese, dal dialogo festaiolo da commedia domenicale, ma non venature amare, da cui traspare un vigile senso della morte”2

Tornando ai motivi che agitano questo lavoro, non secondaria, anche ai fini della ulterior evoluzione dell’arte di Brancati, appare la caricatura dell’amore materno. Ecco, a questo proposito, un brano abbastanza significativo:

“Carmela – La tua faccia adorata!

Ferdinando – Con questo naso, questi foruncoli!

Carmela – Ma tu sei bello! (lo bacia proprio fra il naso e i foruncoli). Bello come il sole!

Tutti – Brava, bene! … Bello magari non è, ma è simpatico.

Carmela – No, bello (torna baciarlo)

Maria (al figlio, avvolgendogli la testa e le spalle nello sciallino). E tu sta’ quieto, e non mi guardare con codesti occhi!

Volfango – Troppa lana, mamma! Io divento un agnello!

Maria – Devi proteggerti la gola, perché all’università non vorrei andarci con una vocina di lattante”3.

Si ha anche in questa commedia l’affacciarsi, forse ancora timido, di quella che più avanti sarà una nota caratterizzante dello stile del Nostro: il barocchismo.

Per adesso, naturalmente, questo termine non sta ancora di indicare un fiorire ubriacante di immagini, quanto piuttosto un originale, sconcertante e dissacrante gusto negli accostamenti. È un’esigenza, quasi, che il giovane autore avverte e che denuncia uno spirito ormai definitivamente avviato verso una osservazione smaliziata della realtà, senza che per questo manchino punte di umana, anche se aristocraticamente superiore comprensione.

Non è inutile, a questo proposito, osservare che in tutta l’opera di Brancati mancano le figure totalmente antipatiche; gli stessi gerarchi fascisti, i più colpiti dal Nostro, più che suscitare l’odio, ci fanno ridere per la loro piccolezza. Ecco, a illustrazione di quanto detto, un brano tratto dalla didascalia d’apertura della commedia:

“Un altarino, di scatole sovrapposte in forma di scalinata ad un mobiluccio, sorregge l’immagine della madonna, la quale guarda con materna soavità le arancie appassite, che le stanno davanti, e un candeliere privo di candele4

A volte, poi, sotto l’immagine cruda, affiora una struggente malinconia:

“ […] avviandosi per uscire passa davanti alla propria fotografia da ragazza. – Ecco Rosa Berti a vent’anni… Dov’è ora? È sepolta in questa tomba di grasso … Mettiamoci un fiore sopra! (Prende un fiore da un vaso e se lo pone sulla testa)5

C’è da dire, infine, che questa commedia si pone come una tappa fondamentale nell’evoluzione artistica di Brancati, più che per delle qualità intrinseche, perché essa rompe con il gusto fascita dei primi lavori teatrali.

Dalla magniloquenza e dall’oratoria di impronta dannunziana, Brancati passa al quotidiano ai sentimenti comuni; lascia, in pratica, il poeta-vate perseguire il “doppiopetto” di Giacosa, magari non trascurando di dare un’occhiata al “teatro del grottesco” di Luigi Chiarelli e, a un diverso livello, di Pirandello.

Certo, come ho già osservato, forse il paragone tra Pirandello e Brancati non risulta molto stimolante, data la diversa fonte da cui traggono ispirazione i due (la “concretezza” e il radicato impegno nei problemi di questo mondo di Brancati mal si concilierebbero con la tesi dal sapore “universale” di Pirandello): ciò non toglie, però, che il Nostro abbia mutuato qualcosa dell’agrigentino, come, per esempio, la “stravaganza” di alcuni personaggi, stravaganza che in vero in un’opera teatrale risulta molto pertinente; infatti, sia i personaggi di Pirandello che quelli di Brancati traducono le loro emozioni e l’agitarsi dei loro sentimenti in gesti di grande effetto scenico, come, per esempio, succede a Volfango che, in Questo matrimonio si deve fare, ci informa della sua timidezza e della sua incapacità di vivere già con la figura tutta infagottata e infreddolita e con la voce che, pian piano, lo abbandona. Strettamente collegato, naturalmente, alla “stravaganza” dei personaggi, è, infine, l’utilizzo che Brancati fa dei particolari fisici e dei tic. Utilizzo che si vedrà meglio nell’analisi delle opere successive a Questo matrimonio si deve fare.

Le trombe di Eustacchio

Il successivo lavoro teatrale di Brancati è l’atto unico Le trombe d’eustacchio. Si tratta di una commedia tendente a fare la caricatura di una spia “asservita a un’etica di tipo fascista”6.

La trama è presto detta: Gerardino, il protagonista, è una spia perfetta, con un orecchio capace di sentire a una distanza enorme, che piano piano sale tutti i gradini della potenza fino a diventare il confidente del tiranno.

Il potere, però, oltre a renderlo arbitro del destino altrui, finisce per renderlo schiavo del suo stesso ruolo; denuncia, infatti, al suo padrone anche le persone che più gli sono care, e perfino la donna da lui amata. Alla fine, ormai disperato, è portato via dal diavolo “Chetiporti “verso il baratro della morte.

Un veloce accenno, innanzi tutto, per la carica di interesse che possiede, merita la soluzione finale che ripete il motivo forse più caro a Brancati: lo sfaldarsi delle “velleità” (in questo caso affidate ai sogni di potenza). E un altro accenno merita la comparsa del motivo del “gallismo” nel teatro brancatiano, motivo che tornerà, con più ampi sviluppi in Don Giovanni involontario.

Ecco un brano esplicativo:

“ […] Nel beato sud, andando indietro (fa l’atto, tendento l’orecchio) a personaggi sospetti, invece di discorsi politici, essi udirono continuamente lodale la… (dice una parola all’orecchio di Gerardino) della donna7

Il lavoro, invero, riveste molta importanza, perché rappresenta il concretizzarsi delle idee teoriche di Brancati. Esso è, infatti, esattamente l’opposto dell’arte-fotografia e si presenta, si può dire provocatoriamente, quasi sotto forma di apologo, con dei personaggi che, in effetti, sono la personificazione di stereotipi astratti.

Così come, nell’antica Grecia, Ulisse è il concetto d’astuzia che si fa uomo, in Brancati, il protagonista di Le tombe d’eustacchio è l’incarnazione del concetto di spia: è un simbolo concretizzato in un corpo.

Non per questo, però, nella commedia è assente il “dramma”; la sua stessa coerenza di spia, infatti, porta l’uomo a delle azioni che, oltre a renderlo infelice, lo danneranno (la denuncia della donna amata).

Il “dramma” nasce da questo contrasto che c’è tra l’uomo, capace quindi di amare e soggetto a simpatia verso alcune persone, e il ruolo di spia, diventato ormai così predominante nella sua anima da personalizzarlo completamente e ridurlo, conseguentemente, a compiere solo azioni disperatamente coerenti alla sua qualifica.

C’è, in fondo, in questa dicotomia qualcosa di pirandelliano, ma è un Pirandello ben poco “universale”: la tematica resta tenacemente terrena, quella del dramma di una spia conformista.

Brancati, in definitiva, sembra avvertirci del pericolo di restare schiacciati e annullati per troppa accondiscenza verso il potere, e, per far ciò porta sulle scene la parabola di un tizio dalle orecchie super sensibili: è la sua maniera di parlare di “cose concrete”.

Don Giovanni involontario

Di più notevole impegno, e una delle più note di tutte le opere del siciliano, è la commedia in tre atti Don Giovanni involontario che narra la storia di Francesco Musumeci, costretto dal padre a un ruolo di instaccabile amatore, da lui mai desiderato.

Francesco finisce per immergersi in una girandola d’avventuare amorose, facendo felice il genitore, ma la vita, alla fine, gli farà pagare lo scotto; egli invecchierà e troppo tardi egli conoscerà il vero amore.

Gli anni accumulatisi sulle sue spalle sono ormai tanti, troppi, e la sua esistenza, in pratica è già finita da un pezzo, sprecata dietro inutili avventure che gli hanno dato solo noia.

Il matrimonio che era ormai l’ultimo rifugio, nel tentativo di riacciuffare la vita, fallirà miseramente e tutto si concluderà con un sognato processo in paradiso che, per l’ultima volta, vede lui come protagonista prima che la più totale dimenticanza della sua persona lo sommerga completamente.

In questo lavoro ci troviamo, evidentemente, rispetto alle precedenti opere, di fronte a una maggiore complessità dell’intimo del protagonista ed a un più articolato impianto di tutta la commedia.

Enzo Lauretta, a ragione, dice che Francesco Musumeci ”E’ il predecessore del Bell’Antonio, annoiato pigro e bellissimo, mentre il padre anticipa la figura del signor Alfio Mangano col suo eccessivo timore che il figlio non sappia interessarsi al sesso8

Gli incoraggiamenti del padre hanno infatti il ritmo dell’ossessione, tali da diventare una vera e propria scelta di vita.

Ecco, infatti, come si rivolge al figlio:

“Cose fuori dalla vita! Sciocchezze che farebbero addormentare un uccello mentre vola. (Esaltandosi) La donna; ecco il grande tema! Lo capiscono tutti, quello! Bisogna che egli scriva d’amore. Mi intendete? D’amore: santo diavolone, io sono vecchio, ma la donna io la sento! Di che siete fatti voi? Mi domando. Avete acqua nelle vene9

Dietro l’apparente bonomia e la folklorica ossessione sessuale di questo vecchio, che poi verrà moltiplicata dal comportamento del figlio, sta quell’atteggiamento accidioso, al di là del male e del bene, che per Brancati era il gallismo.

Questo argomento ritornerà nei suoi romanzi maggiori, ma mai più con la forza e l’intensità con cui è trattato questa commedia, e mai in maniera così diretta.

Il gallismo di “Don” Giovanni Percolla, per chiarire meglio, è fatto di sogni e di discussioni con gli amici; quello del Bell’Antonio Mangano è pura apparenza, basato esclusivamente sulla sua bellezza fisica; perfino le conquiste femminili di Paolo “il caldo” sono deturpate, ormai, dalla lussuria. In Francesco Musumeci si ha, invece, l’unico caso di gallismo “realizzato”.

Non è casuale che Brancati, per rappresentare, questo stato, abbia scelto il teatro. Come ho già detto, per lui il gallismo non è scelta di vita, è un atteggiamento accidioso, al di là del bene e del male, che esiste, ma che non si può giudicare.

Brancati non intendeva, fare alcuna analisi, né dare alcun giudizio, voleva solo rappresentare uno stato di fatto e, per far ciò, lo strumento più idoneo era il teatro, molto più “oggettivo” del romanzo, che, invece, si apre facilmente agli interventi dell’autore.

La Stacchini, a questo proposito, ha scritto alcune pagine dense di interesse, che ci danno un originale chiave di lettura del gallismo.

“Nella commedia Don Giovanni involontario il protagonista Francesco Musumeci rappresenta una incapacità a vivere, una impotenza a opporsi ai miti di una provincia culturale e perciò a trovare una propria identità in una dimensione non accettata dai più, ma autentica: è un timido giovane ritroso davanti alle donne che il padre preoccupato lo invita ad avvicinare10

La studiosa allarga, subito dopo, il concetto. Per lei, infatti, nella concezione brancatiana del gallismo, la donna viene ricondotta all’immagine primordiale, tipica delle strutture di stampo matriarcale, della Grande Madre.

Il gallismo, perciò, si traduce nel contrario di un’azione e nell’accettazione conformista delle idee dominanti.

Il mitologema della Grande Madre, in pratica, è il fermarsi al significato “materno” della donna, in modo che il maschio, dominato da esso, per salvarsi dall’idea dell’incesto e, nello stesso tempo, raggiungere un minimo di soddisfazione fisiologica si fermi allo stadio in cui concepisce la donna come una prostituta (la prostituta è, infatti, esattamente l’opposto dell’immagine materna).

Sentimento accidioso, dunque, e gli stessi personaggi, a tratti, se ne rendono conto. Colpisce, infatti, la malinconia con cui, in alcuni particolari momenti di chiarezza interiore, i personaggi hanno in effetti una visione lucida della fine e del vuoto che, senza scampo, li attende.

“Padre – I vermi mi aspettano. Ma questo non si spaventa. Ieri ho voluto prendere un verme l’ho guardato con la lente. Non è vero che siano schifosi. Era pulito, vestito a nero, si sarebbe detto anche elegante. Se ci sono animali che indossano il frac, questi, credetemi, sono i vermi11

Il dramma di Francesco, date le premesse, non può sfociare che nella noia. La noi, per il Nostro, è la pena perenne che una società, dominata da valori superficiali e dal conformismo, deve scontare. Una noia sottile, pungente e continua, che cinge una corazza d’acciaio e da cui è impossibile scampare senza rompere, in maniera decisa, i mille legami affettivi e di carattere sociale, che sviluppano l’individuo.

Direi che, in questo modo, Brancati realizza ciò che aveva teorizzato, quando aveva scritto che i personaggi sulla scena, oltre ad “agire”, dovevano “pensare” ed esprimere questi loro pensieri in “tirate” la cui bellezza sarebbero state la semplicità e la sincerità. I sentimenti di noia, infatti, così vengono evidenziati, in un monologo del protagonista:

“Francesco – Le donne! In fondo è sempre la stessa storia… quando ne vedo una per la prima volta, certo mi piace, smanio, non dormo, ma insieme conosco perfettamente cosa ne penserò quando mi sarò stancato. Che tristezza! Annoiarsi è sempre assai penoso, ma la noia che mi dà una donna, quella noia pungente, sottile, stretta, chiusa, ripugnante, oh, oh!… delle donne, non posso dire nulla di bene: quando, per poco, hanno detto di no, mi hanno fatto disperare, non dormire; mi son mangiato i gomiti! Quando poi hanno ceduto, mi hanno infinitamente annoiato… e quando dicono no? E quando dicono si? Iddio le perdoni! Hanno sbagliato sempre; arrivano sempre in ritardo, non capiscono, dicono no per ragioni ridicole, dicono sì per ragioni peggiori. Ah, io odio le donne!… (come fra sé). L’insonnia che mi hanno dato, prima, il sonno interminabile che mi hanno lasciato, dopo!…12”. Il passare degli anni, poi, metterà la parola “fine” anche alla noia, in maniera definitiva.

Così un giorno, angosciato, Francesco si chiederà:

“Come ci siamo lasciati scrivere questo schifoso numero sulla schiena? 45… ieri, non più tardi di ieri, ne avevamo diciannove13

In questa commedia c’è ancora da notare il ruolo interessante che è affidato all’amico, visto come confidente delle proprie avventure amorose. Egli, praticamente, agisce come cassa di risonanza del gallismo di Francesco e, con quest’ultimo, ha un rapporto abbastanza ambiguo, quasi di simbiosi, dato che, se da un lato, da parte sua, c’è un processo di identificazione col “gallo”, questi, nel racconto delle sue prodezze, realizza con lui il suo sogno di “protagonista”.

Un breve cenno merita, infine, la lingua dello scrittore usata nello stendere questo lavoro. Essa porta al compimento quel distacco della retorica dannunziana da Brancati incominciato in Questo matrimonio si deve fare. Il dialetto entra nell’opera con piena dignità artistica e il Nostro traduce quasi di peso autentiche espressioni dialettali.

Per esempio, nell’atto I, fa dire al padre di Francesco:

“Che fate, manata di mascalzoni?14

A questo proposito, il Lauretta nota:

“Lo stesso linguaggio è cambiato: s’è fatto vivace e mordente nel continuo riecheggiare del dialetto nell’attingere frequentemente alla lingua parlata15

La lingua creata da Brancati, però, è lontana da quella del Verga, nonostante che il punto di partenza sia lo stesso. Il linguaggio brancatiano, in questo senso è più scenico: un eloquio medio, cioè, forgiato sulla parlata quotidiana dei siciliani; sulla scena esso appare del tutto naturale e verosimile e potrebbe, nonostante le colorate espressioni, appartenere anche a un uomo qualsiasi, magari a qualcuno del pubblico. La sua funzione è quella di rendere più credibili i fatti rappresentati e, per acquistare vita e dignità d’arte, si affida all’interpretazione dell’attore.

In Verga, invece, c’è un impasto linguistico, originalissimo e non riscontrabile nella realtà, che si pone decisamente, esso stesso, come forma d’arte autonoma, senza cercare l’ausilio dell’interpretazione. Ciò è dovuto al fatto che Verga, a differenza di Brancati, era prima di tutto un romanziere, e di una personalità tale che mal sopportava i supporti scenici.

La soluzione brancatiana, quindi, ancora una volta, appare molto più vicina a quella del salottiero e “fotografo” Giacosa, nonostante l’appariscente colore locale.

Raffaele

La terza commedia di Brancati che prenderò in considerazione è Raffaele. È la storia di un conformista a tutti i costi, di uno che ha una sola bandiera: la paura.

Raffaele Scammacca, il protagonista, coltiva un esclusivo interesse: andare d’accordo con il regime fascista come può. In questo è tutto il contrario di suo fratello Giovanni, incorruttibile e indomabile seguace di un’Idea di libertà e di giustizia. Terzo, fra questi due opposti, c’è il fratello prete, corruttibilissimo e infido (e qui salta fuori la vecchia posizione laica, anticlericale e antibigotta di Brancati).

Raffaele vorrebbe dare in sposa la sua figliola al federale fascista, ma le idee di Giovanni lo mettono in una situazione di imbarazzo verso il regime e gli impediscono la realizzazione di questo suo sogno. Quando il fascismo cadrà, Raffaele passerà senz’ombra d’esitazione dalla parte degli americani e degli inglesi e anche il fidanzato della figlia sarà (con buffa coerenza) cambiato nella persona di un capitano inglese. Purtroppo l’ufficiale cadrà in un’azione di guerra e Raffaele, in una drammatica scena finale, sarà costretto a riconoscere la sua natura di pauroso, continuando, naturalmente, a prostituirsi ideologicamente ai nuovi padroni.

In questo lavoro ritorna (a livello molto più ampio, naturalmente) il motivo di Le trombe d’eustacchio, cioè la rappresentazione scenica del conformismo asservito al potere. Ciò che, però, differenzia le due opere è il diverso livello del conformismo dei due protagonisti. Gerardino, la super spia di Le trombe d’eustacchio, aveva, nel suo asservimento al potere, un ruolo attivo e i suoi atti si traducevano in immediati e diretti vantaggi per l’autorità di cui era servo.

Le sue azioni, insomma, erano, appunto, “azioni” in difesa dell’ordine costituito. Raffaele, invece, non vuole avere nessun “ruolo”, e si limita ad accettare passivamente l’autorità, di qualsiasi natura essa sia.

Se il protagonista di Le trombe d’eustacchio resta schiacciato dal suo stesso ruolo di spia, anche nei suoi più cari affetti, Raffaele segue solo la sua coerenza di pauroso, senza alcun vero conflitto interno.

Osserva la Stacchini:

“La mancanza di società (e di fiducia verso la società) fa sì che la debolezza dell’Io preferisca sovente restare affidata alle risorse locali della fantasticheria dell’erotismo. Brancati ha colto questo intimo nesso psicologico quando ci presenta anche i personaggi fascisti: quel Raffaele e perfino il federale hanno un risvolto bizzarro nel quale non credono affatto in quello che fanno16

Infatti, la paura, unica bandiera di Raffaele, è il parallelo, in chiave politica, dal gallismo di Don Giovanni involontario, cioè solo un atteggiamento accidioso, una non-azione. Il “gallo” accetta passivamente i costumi “maschilisti” della società che lo circonda, così come Raffaele ne accetta il regime.

In Brancati moralista c’è una specie di trilogia, composta da Le trombe d’eustacchio, Raffaele e Il vecchio con gli stivali, dove si ha la rappresentazione di tra diversi stadi del conformismo. C’è, infatti, la partecipazione attiva alla conservazione del potere, poi l’accettazione supina e, infine, l’opposizione larvata, timorosa e, per vocazione, perdente del Vecchio con gli stivali.

Queste tre opere, non a caso, sono le più dichiaratamente politiche del Nostro. In esse Brancati ha profuso la sua dottrina di liberale, intollerante solo dei soprusi e dell’accettazione di essi (attiva, passiva o borbottante che sia), e il suo moralismo di intellettuale cosciente dell’estrema debolezza degli uomini.

Infine, in Raffaele c’è da registrare una novità di impianto che sembra introdurre alla maggiore complessità di Una donna di casa e di La governante. Si passa, infatti, dal dramma individuale di Le trombe d’eustacchio o di Don Giovanni involontario a una dialettica di personaggi dai caratteri diversi; infatti, Raffaele è contrapposto a Giovanni e accostato al fratello prete in modo da farlo sembrare quasi isolato nella sua caratteristica di pauroso.

Il dramma, insomma, anziché svolgersi all’interno della sua anima, vive nell’ambiente, e lui è solo un fattore di esso.

1 Enzo Lauretta, op. cit., pag.80.

2 Ivi, pagg. 80/81

3 Vitaliano Brancati, Questo matrimonio si deve fare, atto I, scena XI, in Teatro, cit., pag. 22.

  1. 4 Ivi, Atto I, scena I, pag. 8.
  1. 5 Ivi, Atto II, scena XIX, pag. 75
  1. 6 Enzo Lauretta, op. cit., pag. 81.
  1. 7 Vitaliano Brancati, Le trombe d’eustacchio, quadro V, in Teatro, cit?, pag.100.
  1. 8 Enzo Lauretta, op. cit., pag. 81.
  1. 9 Vitaliano Brancati, Don Giovanni involontario, Atto I, scena III, in Teatro, cit., pag. 111.
  1. 10 Vanna Gazzola Stacchini, Il Teatro…, cit., pag. 25.
  1. 11 Vitaliano Brancati, Don Giovanni involontario, atto I, scena IV, cit., pag.114.

12 Ivi, atto I, quadro IV, scena I, pagg. 138/139

  1. 13 Ivi, Atto II, scena II, pag. 144.
  1. 14 Ivi, atto I, scena III, pag.110.
  1. 15 Enzo Lauretta, op., cit., pag. 81.
  1. 16 Vanna Gazzola Stacchini, Il Teatro…, cit., pag.55.