Brancati e i barocchismi teatrali del Novecento: tante Architetture sul Nulla – di Rocambole Garufi

Brancati e i barocchismi  teatrali del Novecento: tante Architetture sul Nulla – di Rocambole Garufi

I grandi riferimenti del teatro borghese: Verga, Giacosa, D’Annunzio e Pirandello

di Rocambole Garufi

Per capire il genio teatrale di Brancati, in definitiva, bisogna partire dagli stessi romanzi che già sono strutturati in maniera assai vicina alle opere del palcoscenico.

In essi, infatti, il dialogo è preponderante sulle parti descrittive, e i caratteri dei personaggi, più che da interventi dell’autore, vengono fuori dalle loro stesse parole, procedimento necessario quando si scrive per un pubblico che ascolta e non per un pubblico che legge.

Per chiarire meglio, citerò due esempi di “caratteri” perfettamente delineati nell’ambito di una battuta, in apertura di romanzo.

“Don” Giovanni Percolla si presenta a noi con queste parole:

“L’acqua calda riscalda in Gennaio e rinfresca in luglio’”1.

Leonardi Barini, l’assonnato protagonista di Gli anni perduti, apre il romanzo con queste parole:

“Adesso lasciami dormire per una ventina di minuti’”2.

C’è, infine, da notare il gusto che Brancati ha per la “scenetta”. In tutte le sue opere narrative vi sono, infatti, numerosissime zone dove lo scorrimento del tempo sembra, momentaneamente, fermarsi e l’autore indugia (si direbbe compiaciuto) a rappresentarci un ambiente attraverso un dialogo serrato e la descrizione di alcuni movimenti tipici (tic dei personaggi, ad es.). Queste “scenette” non sono prive, il più delle volte, di sarcastico umorismo e appaiono pronte per essere trasportate, quasi senza nulla aggiungere o togliere, sulla scena.

“Letterato” nel senso pieno della parola, nel suo accostarsi al teatro Brancati imboccò una strada che gli faceva rifiutare qualsiasi forma di dilettantismo, anche se geniale.

La sua umanità e la sua cultura lo portavano a inserirsi con naturalezza nel vivo dei dibattiti del tempo. Il suo interesse per il teatro è d’altra parte testimoniato dai numerosi articoli e interventi che egli fece sull’argomento.

Per tale ragione, la sua opera teatrale va inserita in un contesto piuttosto ampio se la si vuole capire appieno. Il teatro italiano, rispetto a quelli europei, tardò, purtroppo, ad assumere i connotati che ha ai giorni nostri. A differenza di molte altre nazioni, ad esempio, in Italia, alla fine dell’‘800, non si avevano ancora i teatri stabili e le rappresentazioni venivano affidate alla quasi personale iniziativa di attori ancora girovaghi.

Fortissima era, infine, la carenza che si aveva gli autori italiani e ciò aveva fatto sì che le compagnie quasi sempre mettessero in scena lavori di francesi. o di loro imitatori.

Fu sempre dopo l’introduzione e la diffusione di una poetica francese, il naturalismo, che l’Italia conobbe le sue grandi espressioni teatrali nel verismo aggressivo e drammatico del Verga, con la sua lingua costruita e modellata sulle strutture del dialetto, e nella commedia verista borghese di Giacosa, con i suoi dialoghi dall’eloquio comune e dimesso le sue situazioni immerse nel quotidiano e nell’assolutamente non eccezionale.

Il superamento dell’ ”inquietudine fotografica dei veristi”3 – che per tutta la seconda metà dell’ ‘800, e in parte, anche nel ‘900, imperversò sui teatri italiani – venne (tolti, naturalmente, i tentativi del Butti e un po’ del Bracco) dalle rotondità oratorie e dal sensuale gusto per i grandi gesti di Gabriele D’Annunzio che con le sue tragedie, che pretendevano di ridare voce al grande dramma classico, propugnò un linguaggio che rifuggiva dal quotidiano e dal dimesso per assurgere all’altezza dell’eroico.

L’ultimo grande nome, infine, che la scena italiana ha conosciuto è stato quello di Luigi Pirandello che, con le sue congegnate trame, animate da personaggi dall’eloquio spezzato e singhiozzante, scoprì e mise a nudo l’intero dissidio di un mondo ormai alla ricerca della sua identità perduta e disastrosamente avviato verso la guerra.

Questo brevissimo flash contiene gli elementi principali che concorsero alla formazione dell’arte teatrale di Brancati. Proprio gli autori sopra citati, infatti, all’apparenza così distanti fra loro, bisogna tenere presente per capire alcune scelte formali e tecniche, oltre che di contenuti, che il Nostro fece.

Nei confronti del teatro, Brancati, all’apparenza, aveva delle idee abbastanza precise: il lui premeva essenzialmente il bisogno di esplodere in quadri di “vera vita”. La sua era urgenza di un’arte come rappresentazione terrena, che non si ponesse mai problematiche metafisiche o astratte. Come ci informa Vanna Gazzola Stacchini:

“Egli si è mantenuto costantemente fedele a tale concentrazione teatrale: la poetica del dire cose concrete”4.

Le “cose concrete” del Nostro, però, non fanno pensare affatto a un’arte-fotografia, nel senso, almeno teoricamente, propugnato dal Verga.

Ciò è ancora più evidente se pensiamo all’ “impersonalità” tanto cara allo scrittore catanese, per il quale l’autore doveva mimetizzarsi nella sua opera fino a quasi a scomparire. In Brancati, invece, l’intervento dell’artista non è affatto nascosto, e questo sia nei dialoghi (le frasi dei personaggi conservano sempre un marcato “stile” brancatiano) che nella struttura dell’opera, dove ampio spazio è riservato alle “tirate” di natura lirica.

Continua la Stacchini:

“Riguardo alla tecnica poi, le sue idee le aveva espresse con molta chiarezza fin dal 1935, nel tracciare in un brevissimo e conciso saggio le linee di un vagheggiato ‘probabile nuovo teatro’: ‘si ripete da tutti che il teatro deve essere sintesi e non analisi, personaggi che agiscono e non personaggi che pensano. In genere questa regola è vera, ma non bisogna applicarla ad occhi chiusi né ritenerla priva di eccezioni. Può nascere un teatro in cui personaggi mentre agiscono non sono mai abbandonati da una strana chiaroveggenza che per cui essi, se non con gli atti rivelano allo spettatore quello che fanno, con le parole confessano tutto quello che avviene nella loro anima.

“Naturalmente le battute non saranno in questo caso né brevi né secche, ma di natura grandemente lirica, come quelle tirate delle quali più che sul colpo di scena o sui monosillabi definitivi, si reggeva il teatro classico.

“L’esempio non è del tutto calzante, perché le nuove tirate non saranno mai solenni ma intime; la loro bellezza consisterà nella semplicità e il loro successo nella forza dell’elasticità”5.

Lo spazio che Brancati riserva alla “rappresentazione” dei pensieri intimi dei personaggi è l’opposto della “fotografia” naturalistica della realtà. ” Le cose concrete” del Nostro, perciò, stanno piuttosto a indicare una sua “vocazione” a trattare di cose strettamente inerenti alla realtà, senza per questo preoccuparsi di copiarla troppo fedelmente.

Infatti, in Don Giovanni involontario si ha quasi tutto un atto dal sapore quasi surrealistico, con la rappresentazione del sogno fatto dal protagonista.

In questa maniera d’intendere il teatro, Brancati era abbastanza lontano dal Verga, ma non per questo si avvicinava troppo alla deformazione Pirandelliana.

L’autore agrigentino si compiaceva molto del “ragionamento” e il suo teatro finiva per essere a tesi (anche se, naturalmente, non solo questo è l’arte di Pirandello), e ciò spesso provocava una deformazione della realtà quotidiana a favore della realtà scenica. Brancati, invece, si preoccupava molto di conservare la “verosimiglianza” di ciò che narrava o di ciò che rappresentava; anche lo scacco finale a cui erano votati tutti i suoi personaggi, che in fondo poteva costituire una “tesi”, avveniva in maniera del tutto naturale senza mai rivestire il sapore dell’eccezionale.

L’autore più vicino all’arte del siciliano, era invece, Giuseppe Giacosa, soprattutto per quanto riguardava l’ambiente rappresentato (la media e la piccola borghesia), anche se Brancati, chiaramente, si preoccupava molto meno del piemontese di dare alle sue creature un eloquio “quotidiano”.

Queste scelte di carattere formale, armonizzate a quelle di contenuto, escludevano automaticamente Brancati dall’area dell’avanguardia:

“dell’avanguardia manca in lui il presupposto filosofico fondamentale, quello di mettere in dubbio, in un modo nell’altro, la validità della ragione, ‘ l’oggettività del reale’”6.

Sarebbe stato, infatti, per lo meno strano che lui, dopo aver fatto una scelta culturale che valorizzava appieno l’uomo medio, con il relativo sistema di valori dettato da un razionale buon senso, si fosse avviato verso soluzioni formali non vagliate da una equilibrata meditazione.

Il “teatro nuovo” di Brancati, in definitiva, si collocava nel solco della tradizione teatrale classica, mai in antagonismo. Le mutazioni che vi si trovavano rispetto ai modelli di Sofocle o di Euripide erano dovute solo a un adattarsi al mutare dei tempi.

Si trattava, insomma, di una normale evoluzione e nessun scarto di fianco vi era ammesso, né, a maggior ragione, nessun baratro doveva dividere il presente dal passato.

Brancati, come s’è visto, aveva raggiunto una buona coscienza teorica della problematica sul teatro; non riuscì, però, anche forse perché non ne ebbe il tempo, a tradurre la teorica in pura rappresentazione per tutta la durata di una commedia (tranne, forse, con La governante).

D’altra parte, la sua stessa impostazione iniziale, che gli aveva fatto dire che a teatro bisognava parlare di “cose concrete”, difficilmente gli permetteva di scordare, anche quando indossava le vesti del drammaturgo, il fatto che lui era anche un moralista e un polemista.

Le sue figure, perciò, tendevano facilmente a schematizzarsi in “tipi” e mostravano un’eccessiva tendenza al “ragionamento” (naturalmente non nel senso che io ho usato per Pirandello; applicato per Brancati, infatti, il termine ha il significato puramente letterale di un personaggio che ragiona, in quanto segue il filo logico di pensieri; nell’agrigentino, invece, il fatto “cerebrale” investe la stessa struttura della commedia).

A questo proposito, giustamente, la Stacchini dice:

“La volontà di mettere in discussione la società e la logica delle sue istituzioni, la provocazione, la tendenza dei suoi personaggi al “ragionamento” […] in Brancati diventa spesso, come in Una donna di casa, incapacità di risolvere i concetti in figure rappresentate, in gesti, in ritmo, e lascia predominanti la discorsività, l’intelletto”7.

Resta, infine, da fare un breve accenno a un aspetto della tecnica dialogica usata dal Nostro, aspetto che verrà meglio esaminato più avanti, parlando delle singole commedie; intendo dire il suo umorismo.

Per il siciliano, direi che tale aspetto (che, fra l’altro, è quello che più lo avvicina al Pirandello) ha avuto un duplice ruolo, da un lato gli evitava un’eccessiva banalità delle situazioni presentate e dall’altro lo proteggeva da una realtà che lo colpiva troppo nei suoi aspetti più intimi.

In pratica, Brancati, attraverso l’umorismo, riscattava una realtà eccessivamente grigia, come a suggerirci l’idea di non prenderla troppo sul serio, e si proteggeva affettivamente, dato che lui si sentiva coinvolto in essa e a lui stesso sarebbe piaciuto convincersi a snobbarla un po’.

Detto questo, vale la pena di chiudere il paragrafo con le parole che, su questo argomento, la Stacchini ha scritto:

“Brancati cerca di liberarsi dalla propria pena, diventare obiettivo, dandosi l’acre distacco di una caricatura e non riesce che a sottolineare una sorta di brusca e affettuosa partecipazione: un meccanismo di difesa verso situazioni che suscitano sofferenza”8.

  1. 1 Vitaliano Brancati, Don Giovanni in Sicilia, Bompiani, Milano, 1976, pag.6.
  1. 2 Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, cit., pag. 5.
  1. 3 Silvio D’Amico, Storia del teatro, vol. II, Garzanti, Milano, 1976, pag. 313.
  1. 4 Vanna Gazzola Stacchini, Il teatro di Vitaliano Brancati, poetica, mito e pubblico (con inediti), Milella, Lecce, 1972, pag.9.
  1. 5 Ivi, pag. 10;

6 Ivi, pag. 17.

  1. 7 Ivi, pag. 17.
  1. 8 Ivi, pag. 23.