Giacosa, Giuseppe – Come le foglie, commedia (lo sceneggiato televisivo, la biografia dell’autore, un film)

Giacosa, Giuseppe – Come le foglie, commedia (lo sceneggiato televisivo, la biografia dell’autore, un film)

GIACOSA, Giuseppe

di Giorgio Taffon – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 54 (2000)

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GIACOSA, Giuseppe

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Nacque a Colleretto Parella (dal 1953 Colleretto Giacosa), nel Canavese di Ivrea, il 21 ott. 1847, da Guido e Paolina Realis, entrambi di famiglia altoborghese. Compiuti tra il 1860 e il 1865 gli studi liceali tra Ivrea, Modena e Brescia, al seguito del padre magistrato, nel 1866 s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, mentre il padre, lasciata la carriera, apriva a Torino uno studio d’avvocato. In quello stesso anno scrisse il suo primo testo drammatico, Molte parole e pochi fatti, recentemente ritrovato e pubblicato (Primafila, IV [1997], 36). Nell’agosto del 1868 si laureò in legge e intraprese la pratica di avvocato presso lo studio paterno, anche se già consapevole di avere altra vocazione.

Nella città sabauda il G. aveva frattanto stretto amicizia con giovani poeti e artisti, tra i quali G. Faldella, G. Camerana, I.U. Tarchetti, E. Praga, tutti legati alla cosiddetta scapigliatura piemontese. I suoi primi lavori teatrali ripetevano moduli e tematiche caratteristici della lirica degli scapigliati, riproponendo ambienti tipici del romanticismo di quel periodo.

Ciò risulta chiaramente dalla ideazione di quei testi, di derivazione francese, definiti “proverbi drammatici” e molto in voga in quegli anni; essi avevano come tematica unica il rapporto fra i sessi, connotato da complicate schermaglie amorose, di sicuro effetto pur nella loro superficialità, con dialoghi brillanti e scorrevoli, contrassegnati anche da toni malinconici ed elegiaci.

In questa forma sono composti Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia, non sa quel che trova, del 1870, Non dir quattro se non l’hai nel sacco e A can che lecca cenere non gli fidar farina, entrambi del 1872. Del 1870 è il bozzetto drammatico Al pianoforte; del 1871 la leggenda drammatica, in versi martelliani e in un atto, Una partita a scacchi, il primo grande successo del Giacosa.

Questo atto unico è tratto da un episodio “grivois” del cantare cavalleresco Huon de Bordeaux (sec. XIII), scambiato dal G. per una romanza provenzale. La vicenda poggia sulla scommessa tra il giovane e coraggioso paggio Fernando e il vecchio conte, padre di Jolanda, per la vittoria che il giovane si ripromette su questa nel gioco degli scacchi e la cui posta è la mano di lei, se il vincitore è lui (e questo sarà l’esito) o la morte del giovane, se a vincere è lei.

Agli inizi del 1872 il G. si ritirò nella casa di famiglia a Colleretto Parella, dedicandosi per circa sei mesi agli studi e alla scrittura. Tornò quindi svogliatamente a lavorare allo studio paterno, ma i primi successi teatrali, sul finire del 1872, lo convinsero a interrompere nel 1873 la carriera d’avvocato. Da quest’anno la sua vita fu contraddistinta da una continua e intensa attività letteraria, soprattutto come drammaturgo, giornalista e abile conferenziere. Entrato in rapporto con P. Ferrari, V. Bersezio e A. Boito, il G. fu spinto a cimentarsi nel genere vincente della commedia sociale, anch’essa di derivazione francese (che ebbe tra i massimi esponenti É. Augier e A. Dumas fils). Infatti in questo biennio finì di scrivere La gente di spirito e ne portò il copione al capocomico L. Bellotti Bon, da cui ebbe però una risposta negativa; all’inizio del 1873 usciva a Torino il volume Scene e commedie; il 17 febbr. 1873, al teatro del Corso di Bologna, la compagnia Marchi-Ciotti-Lavaggi mise in scena la commedia di argomento sociale in quattro atti, in prosa, Affari di banca, rimasta inedita, e il cui originale risulta introvabile. Su richiesta di A. Torelli il G. autorizzò infine l’Accademia filarmonica di Napoli a rappresentare il 30 apr. 1873, su allestimento di una compagnia amatoriale, Una partita a scacchi.

Il successo arriso nel tempo a questa commedia avrebbe indotto il G. a favorire i gusti di un pubblico orientato più che verso le commedie di ambiente moderno e contemporaneo verso le commedie storiche, sia medievaleggianti (come Il Conte Rosso del 1880, dramma storico sulla figura di Amedeo VII di Savoia), sia rinascimentali e vagamente ariostesche (come Il trionfo dell’amore, del 1875, ispirato alla Turandot di G. Gozzi ma ambientato in Piemonte), sia, infine, connotate da un clima saturo di influenze goldoniane (come Il marito amante della moglie, del 1877). Già si avvertiva in questi lavori giovanili l’abilità nel creare atmosfere di una quotidianità dimessa e personaggi via via costruiti abilmente nelle pieghe della loro complessa psicologia. Il G. non fu solo uno scrittore che visse il teatro dall’esterno, ma intrattenne stretti rapporti con il palcoscenico, con attori e capocomici, in un periodo, gli ultimi trent’anni dell’Ottocento, in cui la figura del “grande attore” va trasformandosi in quella del “mattatore”, e ciò malgrado il precario equilibrio tra scrittori e “uomini di scena”. In seguito la produzione del G. attraversò quasi tutti i generi teatrali in voga tra gli anni Settanta dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dai “proverbi” alla commedia sociale, a quella storica d’ambientazione medievale, fino al dramma borghese, psicologico e intimista.

Il 1° dic. 1873, al teatro Manzoni di Milano, la compagnia Marini-Ciotti portò in scena la commedia in quattro atti in prosa, rimasta inedita, I figli del marchese Arturo, sempre sulla linea della comédie sociale. Il 27 nov. 1875 al teatro Rossini di Venezia andarono in scena, ancora con la compagnia Marini-Ciotti, i due atti in versi martelliani Teresa, rimasti inediti, poi divenuti i tre atti di Luisa, in cui la protagonista non solo ha un amante ma, messa alle strette dal marito che pretende la riconciliazione, si suicida: è questo il primo adulterio del teatro giacosiano, dopo i molti tradimenti mancati delle precedenti commedie sociali; nella pièce, comunque, compare una situazione triangolare che prepara quella di Tristi amori.

Il 15 ott. 1877, lo stesso anno del matrimonio del G. con una cugina di quarto grado, Maria Bertola, da cui ebbe tre figlie, al Gerbino di Torino fu rappresentato il dramma in quattro atti, in versi martelliani, Fratello d’armi, per l’allestimento della compagnia Bellotti Bon numero 1. Nei primi mesi del 1878, nella quiete di Colleretto, si dedicò alla stesura di Castelli valdostani e canavesani, dimostrandosi prosatore di limpida ispirazione e, successivamente, fine rievocatore di ambienti e paesaggi medievali e memorialista efficace di viaggi ed escursioni alpine. Da un viaggio compiuto quell’anno in Europa con E. De Amicis nacquero le lettere da Parigi pubblicate nell’Illustrazione italiana dal 20 giugno al 1° dicembre.

È innegabile la versatilità eclettica dimostrata dal G. nel decennio 1870-80, anni anche di preparazione alla molto più importante produzione drammaturgica veristica, alla sua “seconda maniera”. È proprio a partire dal 1881-82 che il drammaturgo, spinto anche dalla conoscenza di É. Zola e del suo Il naturalismo a teatro e dalla determinante amicizia con G. Verga, approfondisce il realismo psicologico e introspettivo, affrontando la tematica esistenziale del personaggio borghese, cifra più significativa del suo verismo drammatico. A proposito del Verga e della sua Cavalleria rusticana, alla vigilia della prima nel 1884 il G., pur convinto che massima ambizione di un drammaturgo dovesse essere la resa verosimile del mondo sociale borghese e cittadino, metteva in rilievo, nella Gazzetta piemontese, l’importanza della rappresentazione di quelle “scene popolari” siciliane. Si può dire, in effetti, che con lui il verismo teatrale diviene verismo del Nord; l’ambientazione e i personaggi si situano nella scena chiusa del salotto, anzi del tinello borghese, dove sommessamente si consumano tradimenti, drammi interiori, rovine familiari.

L’11 apr. 1881, all’arena Nazionale di Firenze, la compagnia della Città di Torino, con Eleonora Duse principale interprete, portò sulla scena l’atto unico in prosa La zampa del gatto. La stessa Duse fu la principale interprete di La sirena, rappresentata il 22 ottobre al Valle di Roma, seguita da L’onorevole Ercole Mallandri, in scena il 28 genn. 1885 al Manzoni di MilanoI tre testi costituiscono un’ulteriore tappa verso la completa maturazione della poetica del G., ormai inserito a pieno nella vita culturale (da tempo era in rapporto con F. Martini e più di recente aveva conosciuto A. Fogazzaro) e da ultimo professore di storia e letteratura applicata alle arti presso l’Accademia di belle arti di Torino, capace di raccontare, con la raccolta di Novelle e paesi valdostani (Torino 1886), un mondo popolato di deliziose figurine di montanari.

Fin qui il G. aveva scritto e portato sulla scena testi di ottimo mestiere, rappresentati in genere da compagnie di notevole livello. In particolare ebbero maggior spicco le leggende drammatiche e i drammi storici, come dimostrano la scrittura e l’allestimento della Signora di Challant (1891) con il successo riscosso ovunque, malgrado il sopravvento ormai preso dal clima verista e dalla poetica naturalista, nel cui ambito vanno collocati i suoi due capolavori, Tristi amori Come le foglie. Va detto, per quanto riguarda la produzione non strettamente veristica, che nei testi di stampo storico il G. ebbe a ricreare un Medioevo privo degli slanci eroici tipici della poesia romantica e risorgimentale.

La stessa Duse, con la sua tipica presenza scenica, con il suo stile attoriale, contribuiva ad assorbire e comprimere l’enfasi e la retorica di scena che la tipologia dell’attore italiano di quegli anni invece perseguiva. Le storie inoltre erano ben sostenute dai dialoghi costruiti sul verso martelliano, che contribuiva a sottolineare la dolcezza musicale della partitura verbale, pur rischiando spesso una mielata e manieristica leziosità. La scarsa plausibilità dell’azione scenica di alcuni di tali testi veniva stemperata e riassorbita nel clima da leggenda o anche da romanza mélo.

Nel 1887 il G. collaborò continuativamente alla Gazzetta piemontese con articoli domenicali di attualità e varia umanità. L’evento più importante di quest’anno fu la rappresentazione di Tristi amori, che andò in scena in marzo al Valle di Roma, con esito del tutto negativo, per poi passare a Torino al teatro Gerbino, dove, nell’interpretazione della Duse, la sera del 30 novembre riportò un successo trionfale.

La commedia è impostata sul triangolo marito, moglie e amante di questa, ma ciò che distingue l’intreccio è il modo in cui il G. delinea i caratteri dei personaggi inserendoli nelle contraddizioni della società borghese del suo tempo. Tra il personaggio di Giulio Scarli, avvocato affermato ma anche uomo sensibile al decoro non solo materiale della famiglia, e quello di Fabrizio, suo collaboratore giovane e intraprendente che costruisce sulla simpatia e sulla emotività una appassionata relazione sentimentale con la moglie di Giulio, è proprio la figura di costei, Emma, a rivelare secondo la critica lo spessore drammaturgico maggiore, scissa com’è tra il bisogno di sottrarsi alla quotidianità anche entrando nella dimensione del sogno e l’attaccamento alla famiglia che, soprattutto attraverso la figlia, la riporta ai problemi di tutti i giorni. Come accade spesso nell’opera del G., il finale suona piuttosto moralistico, con l’inevitabile vittoria della filosofia positiva della realtà, anche a costo dell’inautenticità.

Nell’autunno del 1888 il G. si trasferì a Milano, dove per un anno diresse la scuola di recitazione dell’Accademia dei filodrammatici e dove fino al 1892 insegnò letteratura drammatica e recitazione al conservatorio. Nel febbraio del 1889 accettò di scrivere per Sarah Bernhardt La dame de Challant, dramma storico in prosa in cinque atti, la cui stesura, interrotta per abbozzare le scene principali di Diritti dell’anima, fu completata nel dicembre del 1890 ed ebbe un seguito immediato nella versione italiana che il G. preparò per la Duse, che la portò in scena al Carignano di Torino (14 ott. 1891). Nell’interpretazione della Bernhardt il dramma fu rappresentato invece allo Standard theatre di New York il 2 dicembre, dopo una serie di prove cui era stato presente lo stesso G., che, recatosi di proposito in America, aveva anche dovuto apportare parecchie modifiche al copione. Dal viaggio sarebbero derivate poi le Impressioni d’America, pubblicate a Milano nel 1898.

Mentre intanto si impegnava con L. Illica a scrivere il libretto della Bohème di G. Puccini, sul finire del 1892 il G. si dedicò a completare Diritti dell’anima che, terminato ai primi di febbraio dell’anno successivo, andò in scena il 26 febbraio al teatro Nuovo di Verona, interpretata da E. Zacconi.

I protagonisti di questa pièce sono Paolo, un borghese benestante, e sua moglie Anna, che coltiva, contraccambiata e senza mai confessarlo al marito, un amore tutto mentale per Luciano, un cugino del marito che si toglierà la vita per l’impossibilità di realizzare tale rapporto, con conseguenze rovinose per la coppia. In questa commedia che vede l’adulterio consumato solo sul piano psicologico, l’ibseniano passato che incide sul presente scenico serve a mostrare, in un’evidente ripresa della tematica di Tristi amori, come l’istituto matrimoniale possa crollare anche per cause interne alla coppia.

Direttore pro tempore, a partire dal 1895, della Società degli autori, nel maggio del 1896 il G. tenne al teatro dei Filodrammatici di Milano, in aperta polemica con il critico e cronista teatrale G. Pozza, l’importante conferenza La suggestione scenica.

Nella conferenza, poi rifusa nel volume Conferenze e discorsi, il G. svolgeva una riflessione sull’arte dell’attore che, prendendo le distanze dal modello di attore “freddo” e approdando al concetto di “suggestione”, attraverso cui l’attore, per via di “immagini”, può veramente immedesimarsi nel personaggio, anticipa, anche se inconsapevolmente, successive ricerche sulla “reviviscenza” (di K.S. Stanislavskij) e sulla costruzione del sottotesto.

Nell’attività di librettista fu sempre impegnato, insieme con l’Illica, a lavorare per il Puccini: alla Bohème (1896) seguirono nel 1900 Tosca e nel 1903 Madama Butterfly, tre adattamenti da tre testi letterari (rispettivamente da H. Murger, V. Sardou e D. Belasco), che, pur resi faticosi dall’esigentissimo compositore lucchese, seppero rendere bene tutte le sfumature del suo mondo fantastico ed ebbero parte non piccola nel successo che egli riscosse.

Nel 1900 il G. assunse la direzione della Lettura, di cui preparò il primo fascicolo, uscito nel gennaio dell’anno successivo. Il 31 genn. 1900, interpretata dalla compagnia Di Lorenzo-Andò, andò in scena al teatro Manzoni di Milano Come le foglie, commedia in prosa in quattro atti, storia dello sfacelo di una famiglia.

Il banchiere Giovanni Rosani, caduto in rovina senza sua responsabilità, decide di rifarsi una vita in Svizzera. Ha in progetto di lavorare insieme col nipote Massimo, tipico esponente della nuova borghesia imprenditoriale, intraprendente e moralmente retto. Lo seguono la seconda moglie Giulia e i figli Tommy e Nennele, ma l’unità della famiglia, di fronte alle difficoltà materiali, subisce un processo di sfaldamento: Tommy è preso dal vizio del gioco, finendo per sposare una facoltosa avventuriera; Giulia, d’animo superficiale, tenta di riprendere le abitudini di un tempo frequentando un frivolo ambiente di artisti; accanto al padre Giovanni, onesto e dedito al lavoro, ma in fondo deluso e rinunciatario, resiste solo Nennele, l’unica ad aver compreso la lezione della rovina economica e la necessità di ricostruire su nuovi fondamenti la vita familiare, ma anche lei incapace di trovare la soluzione, chiusa nella sofferenza crepuscolare delle memorie e dei rimpianti. Solo alla fine della commedia, dopo aver anche pensato al suicidio, Nennele accetta l’amore di Massimo, unica ancora di salvezza per coloro che ancora vivono nella famiglia.

Anche qui, dunque, la storia è quella di un self-made man dell’Italia settentrionale, all’alba del XX secolo. Il personaggio di Giovanni Rosani è pienamente inserito in quella “piccola drammaturgia europea” e, per certi esiti, si affianca alle grandezze di H. Ibsen e prelude agli approdi della ricerca strindberghiana: nel suo ruolo di marito passivamente rassegnato, egli sa tutto, ha previsto tutto e ogni cosa ha messo nel conto, ma tace, non essendo in grado di oltrepassare la sua chiusa, provinciale dimensione intimistica. D’altra parte anche il culto del lavoro inizia a mostrare il suo volto negativo, di cieco attivismo, senza più né gusto né felicità. Il borghese Rosani paga una doppia sconfitta, sia sul piano personale sia su quello sociale. A guardar bene egli, pur dando molto in denaro e fatica, per i figli risulta essere un padre assente. Certo, la commedia si chiude con un gesto di riscatto che dimostra la voglia di Giovanni di leggere dentro se stesso e negli altri familiari, così che si può interpretare la didascalica luce lunare che nel finale bagna l’interno di casa Rosani come un’illuminazione, seppur tenue, soffusa, una “sorta di epifania” che conquista l’animo della figlia Nennele. Non v’è dubbio che, nel modo di chiudere questa vicenda, agisca nel G. la convinzione che la salvezza di questi borghesi possa realizzarsi solo all’interno del guscio familiare. Questi destini, queste “foglie” autunnali e crepuscolari, propongono comunque una drammaturgia di più complessa indagine psicologica. Della commedia Anna Barsotti (1973) ha sottolineato la bellezza del linguaggio, nello stesso tempo poetico e colloquiale, e il fatto che il suo concertato riposa sull’alternanza, quasi nevrotica, di concitazione e di silenzi, di tempi e ritmi dapprima rallentati e poi, d’improvviso, raccorciati. La stessa studiosa ha pure opportunamente analizzato, nel farsi concreto del teatro italiano novecentesco, le modalità interpretative, soprattutto nei confronti dell’ultimo atto e del finale: fra tutte spiccano quelle, in certo senso inaugurali, prescelte dalla regia di L. Visconti (1954), che rendono “moderno” il quarto atto, “con il profilarsi di quella figura indistinta di chi “ha capito”, ma che si manifesta come un'”ombra” della coscienza dei personaggi” (A. Barsotti, “Come le foglie” ricadono sul Novecento (con qualche appunto dal manoscritto), in Materiali per G., p. 236).

Dopo avere assistito nel dicembre del 1900 alla prima berlinese di Come le foglie, il G. ebbe l’ultima snervante collaborazione con il Puccini per la Butterfly. Nel giugno del 1904 fu costretto a recarsi a Karlsbad per le cure termali; per quanto sofferente di scompensi cardiaci che già a fine anno gli avrebbero provocato una prima, grave crisi, riuscì a lavorare alla stesura di Il più forte, commedia in prosa in tre atti rappresentata il 25 nov. 1904 al teatro Alfieri di Torino dalla compagnia Gramatica-Talli-Calabresi.

Morì il 2 sett. 1906, nella casa nativa di Colleretto Parella.

L’edizione completa delle opere teatrali del G. è disponibile nei due volumi di Teatro, a cura di P. Nardi, Milano 1948 e comprende, oltre i testi già citati, Storia vecchiaSorprese notturneAcquazzoni in montagnaIl filo; Il punto di vista; Resa a discrezioneLa tardi ravvedutaIntermezzi e scene. In appendice, quattro testi rimasti inediti fino al 1948: I figli del marchese ArturoIntrighi elegantiGli annoiatiL’onorevole Ercole Mallandri, nonché il frammento del libretto per L. Perosi, Caino.

Per la narrativa: Novelle e paesi valdostani, Torino 1886, poi Milano 1905 (ediz. illustrata) e 1954; Genti e cose della montagna, Bergamo 1896, poi Sesto San Giovanni 1917 (nel quale sono accolti, tra l’altro, il racconto La rassegna e le due prose In montibus sacris e Il viaggio del re morto); Novelle, Firenze 1913; Un minuetto – Storia di Natale Lysback, Napoli 1918.

Per la saggistica e i libri di storia, viaggio ed erudizione: Il Castello d’Issogne in Val d’Aosta, Torino 1884; Esposizione generale in Torino: guida illustrata al castello feudale, in collaborazione con P. Vayra, ibid. 1884; Castelli valdostani e canavesani, ibid. 1898, poi col titolo I castelli valdostani, Milano 1905 e 1909; Castelli valdostani e canavesi, ibid. 1925; Impressioni d’America, ibid. 1898 e 1908.

Una bibliografia delle pagine sparse a cura di G. De Rienzo si trova in Pagine piemontesi, Bologna 1972; si ricordano inoltre: Conferenze e discorsi, a cura di I. Cappa, Milano 1909, raccolta postuma, che comprende, tra l’altro i testi La luce nella Divina CommediaIl teatro moderno e le commemorazioni di É. Zola e G. Verdi; ai quali sono da aggiungere le conferenze Della morale nell’arte (8 dic. 1881), Del vero in teatro (19 marzo 1882), Castelli e principi dell’epoca del Rinascimento (primavera del 1892), Il cosmopolitismo e il teatro (autunno 1895) e L’art dramatique et les comédiens italiens (tenuta il 17 febbr. 1899 a Parigi e pubblicata in italiano in Rivista d’Italia, aprile 1899).

Tra le collaborazioni del G. a periodici e quotidiani si segnalano: le già ricordate lettere da Parigi apparse nell’Illustrazione italiana dal 20 giugno al 1° dic. 1878; i frequenti articoli domenicali di varietà e attualità nella Gazzetta piemontese per tutto il 1887; La questione del teatro nazionale, articoli in polemica con F. Martini, nella Gazzetta letteraria di Torino dal 23 marzo al 4 maggio 1889; gli interventi nella Nuova Antologia del 16 ag. 1892, 1° marzo e 1° maggio 1893, 1° genn. 1894 (impressioni americane); 16 dic. 1896 (Tre senatori); 16 sett. 1900 (La regina Margherita); articoli di varietà e attualità sul Corriere della sera del 1893 e poi dal 1899 al 1903; e interventi su argomenti vari nella Lettura del gennaio, febbraio, agosto 1901, giugno e dicembre 1902, marzo 1903.

Fonti e Bibl.: Per l’epistolario v.: le lettere riportate nella biografia di P. Nardi, Vita e tempo di G. G., Milano 1949; G. De Rienzo, G. G. ed Edouard Rod. Carteggio inedito, in Atti dell’Accademia delle scienze di Torino, CIV (1969-70), pp. 12-31; Id., Pascoli – Giacosa: carteggio inedito, in Lettere italiane, XXIII (1971), 3, pp. 387-400; Id., Trentadue lettere di G. G. a Giosuè Carducci, in Boll. stor.-bibliografico subalpino, LXIX (1971), pp. 595-615; Id., Da G. a Bersezio e ritorno. Carteggio inedito, in Otto/Novecento, VI (1982), 1, pp. 191-208.

Tra i contributi critici sul G.: La Lettura, 1906, n. 10, pp. 855-878 (fascicolo commemorativo con scritti di C. Bertolazzi, R. Bracco, E.A. Butti, A. D’Ancona, F. De Roberto, A. Fogazzaro, A. Graf, G. Rovetta, G. Verga e altri); D. Oliva, G. G., in Id., Note di uno spettatore, Bologna 1911, pp. 275-286; B. Croce, G. G., in Id., La letteratura della nuova Italia, II, Bari 1914, pp. 220-238; M. Praga, Cronache teatrali, Milano 1923, pp. 23-29; M. Rumor, G. G., Padova 1940; G. Petrocchi, G. G., in Scrittori piemontesi del secondo Ottocento, Torino 1948, pp. 37-49; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, Firenze 1950, IV, pp. 274-280; S. D’Amico, in Storia del teatro drammatico, III, L’Ottocento, Milano 1954, pp. 280-283; G. Pullini, Teatro italiano fra due secoli: 1850-1950, Firenze 1958, pp. 38-49; P. Nardi, G. G., in Letteratura italiana. I minori, IV, Milano 1962, pp. 3113-3122; A. Barsotti, G. G., Firenze 1973; S. Ferrone, Introduzione, in G. Giacosa, Come le foglie, in Il teatro italiano, V, La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, 3, Torino 1979, pp. 303-306; G. De Rienzo, Introduzione, in G. Giacosa, Teatro, Milano 1987, pp. 5-9; R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Roma-Bari 1993, pp. 160-169, 176-180; Materiali per G., a cura di R. Alonge, Genova-Milano 1998; Enc. dello spettacolo, V, s.v.Diz. critico della letteratura italiana, II, sub voce.

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