“Gli anni perduti” di V. Brancati: più del fascismo poté l’accidia – analisi del Romanzo di Rocambole Garufi

“Gli anni perduti” di V. Brancati: più del fascismo poté l’accidia – analisi del Romanzo di Rocambole Garufi

Gli Anni perduti: più del fascismo poté l’accidia

Tra il 1934 e il 1936 Brancati scrisse il suo primo romanzo ispirato alla sua nuova visione di vita: Gli anni perduti.

La “novità” di questo lavoro ce la dice il critico Enzo Lauretta:

“La noia è la cupa protagonista de Gli anni perduti: lo stesso vento sembra ripetere per le strade e i camini di Nataca le frasi ‘che noia! Che faremo stasera?’”1

Questa noia di Brancati per me ha un significato preciso: nasce dal senso di vuoto che succede a una crisi che ha fatto crollare tutto ciò a cui fino a quel momento si era creduto.

L’abbiamo visto: con Singolare avventura di viaggio l’istinto entrava in crisi e si traduceva (anche se nella coscienza di Brancati era ancora una larva) in lussuria; ad esso succede la noia, e con essa spunta “l’ironia”, la quale è essenzialmente auto-ironia, e non ha altra funzione che quella di una continua parodia di se stesso e dei miti a cui ancora ci si ostina, nonostante tutto, a credere (perché ne ha bisogno, per sopravvivere). La torre panoramica che il professor Buscaino vuole costruire a Nataca, per alcuni non è altro che il Regime fascista, e il fallimento finale a cui essa andrà incontro sarà il fallimento del regime stesso. Questo è vero, a patto però che nel fallimento generale ci si metta anche quello personale di Brancati. Basta vedere come è presentata la figura di Buscaino, che con la sua “voglia di fare” è parente stretto di tutti gli altri uomini d’azione che Brancati aveva esaltato nelle opere fasciste:

“Il viaggiatore in piedi era un uomo di mezza età, con un volto magro e disegnato così finemente da pensare che il suo creatore, nel concepirlo e nell’eseguirlo, si proponesse di elevare il prezzo del volto umano e non badasse più né a tempo né a fatica pur di raggiungere il suo scopo. Su questo magro volto, i capelli s’attaccavano dolcemente, e anche i baffi, lunghi e spioventi, parevano trattenuti lungo le labbra dal piacere di stare nel posto in cui stavano”2

Quale ironia adesso! E come lo stile è disincantato e corrosivo, come appunto deve essere quello di una persona che si dedica coscienziosamente a demolire (anche nei minimi particolari) tutto ciò in cui aveva creduto fino a quel momento, e che adesso odia restandone però, nonostante tutto, ancora affascinato, e per lui c’è sempre il pericolo di ricadere nella vecchia rete. Di fronte a questa situazione, la parolaccia o l’imprecazione non sono certamente efficaci: il ridicolo colpisce meglio.

E, perfetto strumento per questi scopi, con questo romanzo nasce quello che Brancati stesso definì il suo “barocchismo”, su cui mi fermerò più a lungo avanti.

Qui, quello che interessa mettere in evidenza è il volgersi dello scrittore verso nuove tematiche. Il suo tormento creativo cercò uno sfogo in qualcosa di nuovo. Non è ancora l’exploit del sesso come in Don Giovanni in Sicilia o Il bell’Antonio, o la tragedia di quella che definisco “la velleità esistenziale” del Vecchio con gli stivali, ma non è più neanche il rinchiudersi nella irrazionalità o nell’azione come nelle opere giovanili.

Gli anni perduti sono un po’ il simbolo di quella che per il Nostro è l’esistenza e la storia: l’essere immersi in una noia cupa e senza uscita e la velleità del tentativo di uscirne attraverso la costruzione di una torre altissima del tutto inutile e la cui costruzione, peraltro, è già stata proibita da ben quattordici anni3.

In fondo, la storia della Sicilia altro non è stata che la storia di questa impotente velleità. La Torre inutile (come “l’inutile strage” della Prima Guerra mondiale) va, quindi, oltre la sua qualità di simbolo, e Leonardo, il protagonista, guardando fuori dalla finestra, dirà:

“Oh! Queste piazze in cui non accade niente! Come mai non accade niente? Vediamo un po’: osserviamo in che modo non accade niente! È uno spettacolo interessante, e sempre nuovo, e alla fine inspiegabile, questo di una vita che non arriva a partorire mai nulla”4

Il simbolo si ripeterà negli altri romanzi di Brancati. E ci sarà sempre un asse Roma-Sicilia che si ripresenterà quasi meccanicamente, man mano dilatandosi o restringendosi a seconda dei momenti dello scrittore. Leonardo Barini, “don” Giovanni Percolla, Antonio Magnano, Paolo Castorini (tutti i personaggi dei romanzi maggiori, insomma) avranno tutti giovinezza in Sicilia.

Ciò potrà rappresentare il mitico ritorno alle origini e all’infanzia (Moravia mise in evidenza che Giovanni, nel Don Giovanni in Sicilia, poteva sempre dirsi, dopo qualche disgustosa esperienza nella capitale: “Ho sempre Catania che mi aspetta, e la casa paterna e le mie tre sorelle e il mio letto profondo in cui si dorme così bene”)5; alla fine, con Paolo il caldo, anche questo finirà (e sarà la definitiva perdita delle speranze).

Il simbolismo si ripete anche nelle repentine “mancanze di luce o di gioia” che, collocate in un preciso momento della esistenza dei personaggi, hanno funzione di cesura nella loro vita.

Infatti, in Gli anni perduti:

“La verità era questa: che d’un tratto, senza gravi ragioni, la gioia era finita nel cuore di Leonardo. La bella luce, che illuminava tutte le cose, e dava un senso anche alle sedie e al calamaio, s’era spenta”6

Nel Bell’Antonio:

“Ma nell’autunno del 1934, una subitanea quanto strana malinconia s’era impossessata di lui. Questa malinconia, sulla fine di novembre, prese tutti i caratteri della tetraggine”7

E ancora, nel “Vecchio con gli stivali”:

“Buio. Questa parola fa alzare Aldo Piscitello, rapito dalla sua verità. – Si – mormora col fiato, – buio nel cuore!”8

Certo, è chiaro il riferimento alla crisi del credo fascista9, ma la foresta di simboli in Brancati è quanto mai ambigua e si presta ad una miriade di interpretazioni che non tento neppure, perché potrebbero condurre troppo lontano.

  1. 1 Enzo Lauretta, op. cit., pagg. 50/51.
  1. 2 Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, cit., pag. 61.
  1. 3 Questa vicenda, ambientata a Catania (Nataca), ricorda molto da vicino, il tentativo di costruire un teatro, su progetto di Giambattista Filippo Basile, a Militello in Val di Catania (cittadina in cui Brancati aveva vissuto). L’opera voluta dal Ministro Salvatore Majorana Calatabiano, molto somigliante alla descrizione fisica che lo scrittore fa del prof. Buscaino, venne boicottata dagli avversari politici, i Cirmebi, per cui restò incompiuta fino alla distruzione. Per maggiori dettagli, riporto un mio scritto di anni fa (Dalla Natività di Andrea della Robbia ai Contadini di Santo Marino, Storia dell’Arte e a Militello): “Nell’arte siciliana della seconda metà dell’Ottocento le istanze veriste si scontravano e convivevano con audacie innovative. Soprattutto nell’urbanistica e nelle costruzioni. Si pensi che presidente del Circolo Artistico di Palermo era stato uno dei più innovativi maestri dell’architettura italiana, Giovan Battista Filippo Basile (1825-1891). E, per quel che ci riguarda, la notizia non è indifferente, poiché Basile era venuto a Militello per i suoi legami di affetto con la famiglia militellese dei Tineo. Per l’esattezza, egli aveva potuto completare gli studi classici ed il corso universitario di scienze fisiche e matematiche, grazie al generoso sostegno del prof. Vincenzo Tineo (1791-1856), figlio del celebre Giuseppe(1) e secondo direttore dell’Orto Botanico di Palermo. In verità, i maligni pensavano che Basile fosse il figlio naturale di Vincenzo Tineo e non quello legittimo del povero custode dell’Orto Botanico(2). Lo dico per una banale constatazione: o il paesaggio coniugale era variegato anche a quei tempi, o resta poco variegato quello dei maligni. I viaggi del Basile, comunque, non restarono senza conseguenze sulla vivacità culturale e artistica di Militello. Infatti, nel 1887, Giovan Battista Filippo Basile assunse il compito di realizzare nella cittadina un Teatro Comunale. Era un motivo enorme di orgoglio, poiché l’architetto aveva già avuto modo di percorrere tutti i gradi di una prestigiosa carriera. Basti dire che nel 1878 gli era stato dato l’incarico del progetto della Sezione italiana all’Esposizione Universale di Parigi. Il successo era stato tale che il governo italiano gli aveva conferito le due commende di San Maurizio e della Corona d’Italia e quello francese, oltre a chiamarlo a far parte della giuria internazionale per le Belle Arti in quell’Esposizione, lo aveva decorato con la croce di ufficiale della legion d’onore(3). La storia del Teatro Comunale di Militello è una storia esemplare per capire quanta devastazione può portare la faziosità politica nella provincia. Per conoscerla, val la pena, senza molto togliere o aggiungere, di leggere ciò che sulla vicenda ha scritto Pio Salvatore Basso: “Verso il 1875, con l’intento di trasformarlo in un pubblico teatro, il Comune di Militello acquista dal senatore Salvatore Majorana Calatabiano il fabbricato dei trappeti Pollina… Secondo il progetto estimativo del Basile (presentato il 5 agosto 1888) la mera somma occorrente per la costruzione del teatro ammonta a £. 76.597,62, rappresentando una piccola spesa in considerazione del gran monumento d’opera d’arte… che si sta edificando in Militello, e che fu sempre l’aspirazione di questa cittadinanza militellana. “Ma, per quanto strano possa sembrare, con l’intervento prestigioso di Giovanni Battista Filippo Basile inizia la parabola discendente di un sogno a lungo accarezzato ma mai realizzato. Basile infatti morì nel 1891, i suoi rari viaggi a Militello, dove peraltro si dovette occupare di altri progetti di opere pubbliche, probabilmente non gli permisero di seguire meglio la direzione dei lavori della costruzione del teatro. Lasciò al comune cinque disegni per i quali vennero acquistate altrettante cornici coi rispettivi cristalli per esporli alla pubblica ammirazione in una sala del palazzo comunale (e di cui, a parte uno, non esiste traccia)… Nel 1903 si parla già di provvedimenti per la censuazione del fabbricato, per il fatto che il teatro lasciato in abbandono, senza tettoia, corre pericolo di demolirsi interamente e che risulta oneroso l’annuo canone enfiteutico di £. 550 da pagarsi agli eredi di Salvatore Majorana. Nel dicembre del 1906 nell’interesse della pubblica incolumità si decide di provvedere alla demolizione delle parti pericolanti e nel 1915 ad appaltare i lavori di demolizione del primo piano in quanto per il deterioramento della consistenza della muratura i mezzi perimetrali del teatro avevano perduto la primitiva solidità statica minacciando di rovinare con evidente pericolo dei passanti… Nel 1919 infine il regio commissario del Comune ordina la stima e quotizzazione Salvatore Paolo Garufi, Dalla “Natività” di Andrea Della Robbia… 53 del locale e dei manufatti del teatro… per poterlo vendere o concedere in enfiteusi ai privati.”(3) En passant, aggiungo che in anni recentissimi (praticamente nel corso dell’ultimo decennio novecentesco) si è perso pure l’ultimo dei disegni originali del maestro, il che dimostra l’eternità dei ladri e degli amministratori poco solerti. Fortunatamente, ho potuto farne realizzare una copia a china (adesso esposta nel Museo Civico) dall’ing. Agata Maria Grazia Puglisi, partendo da una vecchia fotocopia (fig. 27). L’aspetto interessante dell’intera storia è che le “eterne incompiute” non sono una prerogativa della politica contemporanea. La vicenda del teatro, infatti, trova una spiegazione nel fatto che, dal 1892 al 1915, arrivò il potere dei fratelli Benedetto (1854-1935) e Tommaso Cirmeni (1835-1910), come rissosa alternativa al precedente governo dei Majorana Calatabiano (che del Teatro erano stati gli sponsor). Tommaso, fra l’altro, costruì il suo palazzotto accanto all’area del teatro(4). Per fortuna, anche se il suo Teatro Comunale non vide mai la luce, Basile poté lasciare traccia di sé a Militello come urbanista. Di particolare pregio, infatti, ancora oggi risulta la Via San Francesco di Paola, poiché il rigore geometrico con cui corrono le linee dei prospetti delle case, peraltro calibrate con la larghezza della strada, incornicia la facciata dell’omonimo convento, con un felice innesto tra le nuove esigenze di mobilità portate dalla modernità e il decorativismo secentesco. Note Salvatore Paolo Garufi, Dalla “Natività” di Andrea Della Robbia… 54 (1) In una carrellata dei personaggi prestigiosi dell’Ottocento militellese, in bell’evidenza, è quasi obbligatorio porre il naturalista Giuseppe Tineo (Militello, 1756-Palermo 1812). Era figlio di un dottore in legge, Vincenzo, e i suoi zii furono preti piuttosto reputati per la loro dottrina. L’ambiente familiare, quindi, fin da giovanissimo lo invogliò allo studio. Ben presto si trasferì a Palermo, dove, grazie all’opera illuminata del vicerè marchese Caracciolo e del suo successore, principe di Caramanico, cominciarono a nascere molte istituzioni di pubblica utilità (il primo Camposanto, l’osservatorio, le scuole normali, l’orto botanico). Il nostro Tineo, per la fertilità del suo ingegno, meritò di essere uno dei protagonisti, poiché, oltre ad essere cattedratico all’università, fu il primo direttore dell’Orto Botanico. Incombenza, quest’ultima, davvero difficile, se si pensa che, prima che gli venisse affidata, venne mandato a spese pubbliche nelle scuole di Pavia, dove entrò in contatto coi maggiori professori del tempo. (2) Come si legge in Giuseppe Pagnano, Famiglia Tineo, in Militello dalla A alla Z, a cura di Nello Musumeci, Catania, 2003, p. 277; (3) Per notizie più complete cfr. Dizionario degli Artisti Italiani Viventi, a cura di Angelo De Gubernatis, Firenze, Le Monnier, 1887, pp. 40/43; (4) Salvatore Pio Basso, Teatro comunale, in Militello dalla A alla Z, cit., pp. 270/271; (5) Nello Musumeci, Cirmeni Benedetto, in Militello dalla A alla Z, cit, pp. 100/101;

4 Ivi, pag. 23.

  1. 5 Alberto Moravia, op. cit., pagg. 11/12.
  1. 6 Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, cit., pag. 5.
  1. 7 Vitaliano Brancati, Il Bell’Antonio, Bompiani, Milano, 1956, pag.16.
  1. 8 Vitaliano Brancati, Il vecchio con gli stivali, Mondadori, Milano, 1971, pag.26.

9 Come già, la Stacchini ha messo in evidenza, ma questo non basta, secondo me, a spiegare una sua interiorizzazione profonda, se in essa, insieme alla crisi ideologica, non si vede una vera e propria crisi esistenziale.